Ulisse XXXI: Il barbone dello spazio

Tra robot e filosofia esistenziale

Ulisse XXXI

Ulisse XXXI è un adattamento libero dell’Odissea, prodotto per il mercato occidentale è uscito in Giappone solo nel 1988, realizzato in collaborazione con  Shingo Araki (I Cavalieri dello Zodiaco vi dice qualcosa?)

Odissea spaziale

Il protagonista, ovviamente, era Ulisse. Sì, *quell’*Ulisse. Solo che invece di attraversare il Mediterraneo a bordo di una barchetta a vela, qui se ne andava in giro per lo spazio con una specie di navicella molto seria, molto blu, molto anni ’80. Il suo obiettivo era sempre lo stesso: tornare a casa. Solo che a ostacolarlo non c’erano né sirene né Scilla e Cariddi come ce le hanno insegnate a scuola.

No: qui c’erano divinità olimpiche in versione robot, cattive e impassibili, che a un certo punto decidono di trasformare tutto l’equipaggio di Ulisse in statue di pietra. Perché? Boh. Perché sono dèi e si annoiano, immagino. O perché Ulisse aveva disobbedito a qualcosa.

Un classico. Ulisse aveva una spada laser un’arma che era praticamente un incrocio tra la spada di un eroe omerico e una sciabola Jedi.

Ulisse lo psicologo

Accanto a Ulisse c’era Telemaco, suo figlio, sempre serio come se stesse facendo il 730 anche lui. Poi c’era Nono, il robot mascotte, piccolo, arancione, petulante. Era programmato per fare da spalla comica, ma in realtà sembrava la vera punizione divina. La navicella aveva anche una voce: Shirka, l’intelligenza artificiale di bordo. Parlava con tono sepolcrale, come una Siri depressa dopo aver letto tutto Kierkegaard. Ogni volta che si attivava ti sembrava di entrare in un’aula magna, non in un’astronave.

A un certo punto di Ulisse XXXI, spunta Numaios. Alto, elegante, pelle blu, capelli bianchi sparati all’indietro, sguardo da modello di copertina tragica. Chi è? Da bambino non l’ho mai capito bene. Forse un alleato, forse un personaggio secondario che sembrava uscito da un altro anime e poi incollato lì. Ma una cosa era certa: faceva effetto.

Numaios appartiene a una razza aliena molto evoluta, con un look che sta a metà tra un elfo galattico e un diplomatico androgino. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa di filosofico. Parlava poco, ma ogni volta che apriva bocca, Ulisse lo ascoltava come se stesse ricevendo un oracolo.

Ogni episodio era una sorta di mini-mito rivisitato in chiave cyberpunk. Il labirinto del Minotauro diventava una stazione orbitale. Le sirene non erano donne con la coda ma onde radio psicoattive che ti risucchiavano l’anima. E gli dèi greci? Praticamente CEO cosmici, divinità-burocrate che facevano mobbing metafisico al povero Ulisse, uno che voleva solo tornare da sua moglie dopo secoli di conference call divine

Il trauma visivo (ma stiloso)

Nonostante il ritocco artistico di Shingo Araki l’atmosfera restava comunque pesante. Suggestiva, certo. Ma densa. Ogni episodio sembrava una lezione esistenziale nascosta sotto il travestimento di avventura galattica.

Capitan Futuro: l’eterno gemello confuso

Per anni e non scherzo ho confuso Ulisse XXXI con Capitan Futuro. Davvero. Gli stessi colori. Gli stessi sfondi spaziali blu cobalto. Le stesse animazioni lente. Le stesse voci drammatiche del doppiaggio italiano anni ’80, che rendeva qualsiasi cosa più intensa. A un certo punto ho anche iniziato a pensare che fossero spin-off l’uno dell’altro.

Era mejo Capitan Futuro!

Perché lo guardavo? Perché c’era

La verità è che non guardavo Ulisse XXXI perché mi piacesse davvero. Lo guardavo perché lo trasmettevano su Super 3, alle 21 o quello o niente. Ulisse XXXI è uno di quei prodotti che non capivo, forse troppo profondo o forse perché volevo Yattaman .

Ulisse XXXI: Il barbone dello spazio
Ulisse versione Cyberpunk
Ricordo poco
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