Un acquisto Fable in un pomeriggio nuvoloso senza leggere nessuna recensione la copertina un po’ vissuta il prezzo abbordabile. Bastò quel gesto per catapultarmi in un mondo dove avrei potuto essere tutto: un paladino nobile, un mago oscuro, un bandito senza scrupoli. Alla fine, sarei stato tutt’altro.
Fable partiva con il classico trauma: un villaggio tranquillo, una fiera di paese, una giornata serena. Poi il disastro, la tragedia, la distruzione. Il protagonista perde tutto, e guadagna l’opportunità di diventare un eroe. Un classico. Ma anche tra i cliché si possono nascondere grandi viaggi.
Piccoli criminali crescono
Durante l’infanzia, ogni scelta aveva il sapore dell’irresponsabilità. Il mondo offriva piccoli dilemmi morali, e la tentazione di sperimentare l’illegalità era irresistibile. Si imparava presto che aiutare era meno divertente che disturbare. Il primo atto eroico fu ignorato, ma il primo calcio a un pollo fece notizia.

Gli adulti sembravano poco impressionati dai buoni gesti, ma molto sensibili a ogni comportamento sospetto. Il bilancio finale dell’infanzia fu disastroso: reputazione compromessa, genitori delusi (quando ancora c’erano), e un’abilità inquietante nel lanciare oggetti inutili contro NPC innocenti. Ma si cresceva. Più o meno.
Eroe precario
La Gilda degli Eroi era la scuola che ogni giovane avventuriero sognava. Prometteva gloria, potere e rispetto. In realtà, offriva sveglie all’alba, addestramenti interminabili e missioni troppo pericolose per un adolescente. La spada pesava troppo, l’arco non colpiva mai il bersaglio giusto e la magia sembrava progettata per fare scena più che danno.

Dopo anni di esercizi ripetitivi, il protagonista veniva finalmente diplomato. Non perché avesse dimostrato grande talento, ma perché i maestri avevano capito che non sarebbe migliorato più di così. E così veniva rimesso in libertà, pronto ad affrontare un mondo che non lo stava aspettando.
Regime di semi libertà
Una volta fuori dalla Gilda, tutto sembrava troppo grande. Il mondo era vasto, i nemici agguerriti e le missioni sempre sopra le proprie possibilità. Ogni successo sembrava il risultato di una serie di coincidenze favorevoli più che di reale bravura. Ogni fallimento era invece puntualmente meritato.

La fama cresceva lentamente, ma in modo distorto. L’eroe non era temuto, né ammirato. Era riconosciuto. Un volto familiare, uno che si era visto fare qualcosa da qualche parte. Nessuno ricordava esattamente cosa. Le imprese non erano memorabili, ma nemmeno disastrose. L’uomo perfetto per farsi dimenticare subito dopo aver ricevuto una ricompensa.
Il cuore (in)comprensibile delle donne di Fable
Su Fable era possibile sposarsi, ma stranamente il gioco seguiva una logica misteriosa. Il fascino non era legato all’aspetto, né al carattere. Bastava regalare qualche oggetto, fare due o tre gesti buffi e mostrarsi disponibile. Il protagonista, in modo del tutto involontario, diventava rapidamente oggetto di desiderio. Nessuno capiva perché. Nemmeno lui.
Nel tempo, il mio personaggio imparava a sfruttare questa strana attrazione. Si fidanzava, si sposava, cambiava città e ricominciava. Nessuna delle relazioni durava a lungo. L’attenzione non era mai costante, la dedizione scarsa. Ma le unioni si moltiplicavano. Questo aspetto, però, non influenzava in alcun modo il corso della storia. Era solo una distrazione aggiuntiva, un’illusione di profondità sentimentale nel mare poco profondo dell’interazione.
Seguire la trama principale (quando proprio non se ne può fare a meno)
Ogni tanto, il mio eroe si ricordava che c’era una trama principale. Qualcosa riguardo un male antico, una vendetta personale, il destino del mondo. Ma tra un incarico secondario e l’altro, la motivazione si perdeva. Si inseguivano taglie, si completavano incarichi minori, si collezionavano trofei inutili.
La storia proseguiva stancamente, con qualche svolta epica qua e là. Ma il protagonista sembrava sempre fuori posto. Come se la narrazione fosse troppo seria per il suo stile di vita. Ogni scelta morale sembrava casuale. Ogni svolta drammatica veniva digerita con un’espressione neutra. La leggenda avanzava, ma senza entusiasmo.
Diventare un dio su Fable
Arriva un momento, nella carriera di ogni eroe, in cui si guarda allo specchio – anche se in Fable lo specchio non c’è – e si pone la domanda fondamentale: “Che tipo di persona sono diventato?”
Il protagonista di questa storia non fece eccezione. Dopo innumerevoli missioni concluse a metà, relazioni finite male e cittadini confusi sul suo vero ruolo nella società, cominciò a sentirsi stanco. Non fisicamente, ma spiritualmente. Stanco di non sapere più da che parte stare.

La moralità era una linea sottile in Fable, e viverci sopra era estenuante. Salvare un villaggio al mattino, rubare una mela al pomeriggio. Aiutare un vecchio cieco, truffare un mercante. Ogni scelta sembrava annullarne un’altra. Nessuno riusciva più a inquadrarlo.
Essere buoni su Fable richiedeva troppo sforzo. Perdonare, aiutare, condividere: tutte attività faticose, mal ricompensate e spesso accolte con sospetto. Le persone buone venivano ignorate, sfruttate, dimenticate. I cattivi, invece, avevano stile. Entravano in scena con un mantello, pronunciavano frasi ad effetto, raccoglievano offerte in oro e imponevano rispetto con uno sguardo.
Il mio protagonista non diventò malvagio per vendetta, dolore o desiderio di dominio. Lo fece per comodità. Perché era più facile così. Più redditizio. Più semplice da gestire.
Oltre il potere, il vuoto
Ma fu proprio qui, nel pieno della sua “divinità malvagia”, che cominciò a percepire i limiti del gioco creato da Peter Molyneux. Potevi diventare un semidio, sì, ma uno solo nei numeri, nei parametri, negli effetti speciali. Non c’era un vero prezzo da pagare, né un senso profondo da scoprire. Diventare un tiranno onnipotente su Fable era divertente ma ripetitivo. Tutto diventava automatico. Nessuna sfida, nessuna sorpresa. Solo l’eco delle proprie scelte che non cambiavano davvero nulla.

Le città si inchinavano. I nemici fuggivano. Le missioni si completavano quasi da sole. Il protagonista, però, cominciava a camminare più lentamente. Osservava i paesaggi senza coinvolgimento. Tornava nei villaggi solo per rendersi conto che nulla era cambiato davvero. Lui aveva vinto. Ma non sapeva più cosa significasse vincere.
L’eroe era diventato un demone dove , la vera maledizione non era il potere a la noia che si portava dietro.